DISTURBI ALIMENTARI: Se “non mangia” è anoressica e se “si abbuffa” è bulimica. La realtà non è così semplice: facciamo un po’ di chiarezza.

“Sono grassa, non devo mangiare”;
“Quando sto male non resisto e divoro tutto ciò che trovo”;
“Devo controllare ciò che mangio, altrimenti è tutto inutile”;

 

Queste sono solo alcune tra le più frequenti frasi riportate da chi soffre di un disturbo alimentare. Tuttavia, è sempre più frequente sentire storie di persone che non richiedono un trattamento per il proprio disturbo alimentare a causa del fatto che non si identificano nelle categorie maggiormente conosciute.

Può darsi, ad esempio che alcuni alternino tra momenti in cui seguono una dieta ferrea e sono in sottopeso e momenti in cui hanno un alimentazione incontrollata e magari si inducono il vomito.

I termini “Anoressia” o “Bulimia” sono ormai parte del nostro vocabolario quotidiano. Questo da un lato aumenta la probabilità di riconoscere questo tipo di problematica ma dall’altro può generare confusione.

Sono due gli aspetti di rischio più importati:

  • Non tutti i problemi alimentari sono disturbi alimentari
  • Le categorie diagnostiche non sono così semplici come il luogo comune ci suggerisce.

Le categorie diagnostiche psichiatriche dovrebbero essere utilizzate solamente dagli addetti ai lavori, da persone qualificate in grado di comprendere la natura di un problema e di distinguere tra varie manifestazioni. Se guardiamo qualche statistica, ad esempio, la maggior parte dei Disturbi del Comportamento Alimentare vengono inseriti nella categoria “NAS”, in quanto non corrispondono perfettamente ai quadri clinici definiti ma non per questo sono meno invalidanti e patologici.

Utilizzare perciò questi termini generalizzandoli in modo improprio può essere rischioso. “Non sono anoressica perché non mi è mai andato via il ciclo” oppure “se fossi bulimica mi indurrei il vomito”, sono ad esempio pensieri ingannevoli che ostacolano la gestione delle nostre difficoltà.

I Disturbi del Comportamento Alimentare sono senza dubbio tra le diagnosi psichiatriche più diffuse e temute, nonché attuali. La crescente presa di consapevolezza delle conseguenze che questi disturbi possono avere sul benessere e sul funzionamento di chi ne soffre ha portato da un lato ad un aumento di interesse dei clinici e ricercatori nel comprenderli a fondo e trovare strategie di gestione sempre più efficaci, dall’altro ad una diffusione esponenziale di falsi miti e credenze a loro riguardo.

Confondere l’essere sottopeso all’anoressia nervosa o ritenere che un abbuffata denoti la presenza di un disturbo alimentare, ad esempio, è diventato estremamente frequente. Questa confusione concettuale può provocare considerevoli danni ed è quindi fondamentale iniziare a fare chiarezza per discriminare problemi e difficoltà legate all’ambito alimentare fisiologici e transitori, da veri e propri quadri clinici patologici che devono essere presi in carico da professionisti della salute.

La grande maggioranza delle persone che si abbuffa non ha un disturbo alimentare, così come la grande maggioranza delle persone in sottopeso.

Effettuare una dieta ferrea o avere episodi di alimentazione incontrollata sono infatti dei “comportamenti” che possiamo mettere in atto per svariati motivi. In poche parole, avere comportamenti alimentari disfunzionali non significa avere un disturbo alimentare.

COME MI AGGORGO SE HO UN DA?

È scontato affermare che il miglior modo per avere la conferma di un disturbo psichiatrico sia rivolgersi ad un professionista. È però possibile iniziare a comprendere meglio la natura dei disturbi alimentari, facendoci aiutare da modelli teorici specifici.

Secondo il modello transdiagnostico di Chistopher Fairburn (CBT-E), la caratteristica clinica più rilevante per fare una distinzione tra “problemi” e “disturbo” riguarda i contenuti della nostra mente, dal nostro mindset cognitivo. Chi soffre di un disturbo alimentare, è infatti eccessivamente preoccupato per il peso, la forma del corpo o il controllo dell’alimentazione.

Cosa vuol dire “eccessivamente”? Vuol dire valutare se stesso principalmente in base a quanto è magro, quanto è soddisfatto del proprio corpo e/o quando si sente in grado di avere un controllo attivo sul proprio corpo. Tutto ruota intorno a come una persona si valuta. Mentre la maggior parte delle persone si sente bene pensando a se stesso e alle proprie relazioni, penando ai propri successi scolastici o lavorativi, pensando alle proprie abilità atletiche ecc., le persone con DA questi aspetti sono relativamente poco importanti. Ingrassare e trasgredire alle restrizioni diventano quindi aspetti inaccettabili: l’idea è che, ad esempio, non mi importa se sono una buona madre o se a lavoro ho avuto una promozione, se vedo le mie cosce che toccano insieme o la bilancia che segna un numero troppo alto mi sento persa.

Questo nucleo mentale mette le persone nella condizione di avere bisogno di avere regole rigide e precise in merito a “quanto” mangiare, “quando” mangiare e soprattutto “cosa” mangiare. Avere una dieta rigida ed estrema è una componente peculiare di tutti i DA in quanto stabilire determinare regole (avere quindi una restrizione dietetica “cognitiva”) è l’unico modo in cui riesco a liberarmi dall’ansia e dall’agitazione dovute alle mie preoccupazioni eccessive.

Quello che invece può variare nel panorama dei DA è la rigorosità con cui seguiamo la dieta rigida ed estrema. Succede quindi che, per innumerevoli motivi, alcuni riescono a seguire la restrizione alla lettera e quindi perdono significativamente peso, fino ad avere terribili conseguenze sulla salute e sul funzionamento quotidiano. Per altri i tentativi di limitazione alimentare hanno meno successo e talvolta si presentano delle “scivolate alimentari” che vengono percepite come altamente “fuori dal proprio controllo” e alle quali seguono emozioni negative molto intense quali senso di colpa, vergogna, tristezza o anche rabbia, che portano a compensare la trasgressione con comportamenti quali il vomito autoindotto o l’uso di lassativi.

In ogni modo, sia l’ipoalimentazione che l’iperalimentazione diventano aspetti che “mantengono” il Disturbo Alimentare. Come? Favorendo una valutazione negativa di noi stessi e rimandandoci l’idea che solamente controllando il nostro peso, la nostra forma del copro o la nostra alimentazione, riusciremo a non sentirci dei “falliti”.

In particolar modo:
• Chi non resiste alle tentazioni e si abbuffa tenderà a sperimentare emozioni molto negative, che gli faranno pensare che “non vale nulla” e che per sentirsi nuovamente “apposto” dovrà compensare lo sgarro e successivamente aderire in modo più rigido alla dieta.
• Chi è in sottopeso tenderà a considerare la propria restrizione come una prova della propria forza di volontà e del proprio autocontrollo, andando a incancrenire l’autovalutazione centrata sugli aspetti alimentari.

Lo schema seguente è un esempio di come funziona un Disturbo Alimentare e racchiude tutti i punti trattati finora.

Questo schema pone in evidenza il fatto che appartenere ad una delle due categorie diagnostiche “Anoressia” o “Bulimia”, dipende quindi in gran parte da quali comportamenti tendiamo a mettere in atto. Se la restrizione ha successo avremo più probabilmente una perdita di peso e ci avvicineremo al quadro diagnostico dell’Anoressia Nervosa, se invece la restrizione ha meno successo avremo momenti di alimentazione incontrollata che cercheremo di gestire con comportamenti compensatori estremi, e questi aspetti ci faranno più probabilmente rientrare nel quadro della Bulimia Nervosa.

Dato che i nostri comportamenti o la probabilità di successo della restrizione possono cambiare nel tempo, è importante non basarci solamente su questi aspetti, ma verificare dentro di noi se esiste nella nostra mente un nucleo di pensiero che ci dice che “siamo adeguati” e che “va tutto bene” solamente a condizione che alcuni aspetti siano esattamente come noi li vogliamo.

Avere ben chiaro cosa sono i disturbi alimentari e come si manifestano è un primo passo importante. È di vitale importante concludere affermando che il ciclo invalidante del DA che può innescarsi nella nostra vita è ormai molto chiaro. Ci sono modelli che lo esemplificano e protocolli di trattamento che risultano efficaci nel breve tempo, come quello della CBT-E. Se ci rivediamo in tutti o in alcuni dei punti dello schema presentato in precedenza, ci meritiamo senza dubbio di chiedere ad un esperto se può aiutarci a gestire questi aspetti.

 

Articolo scritto dalla dott.ssa Alessia Gatti,

Psicologa, Psicoterapeuta
Studio Il Forte

 

Bibliografia.

Fairburn, C. (2008). La terapia cognitivo comportamentale dei disturbi dell’alimentazione. Firenze: Eclipsi.
Fairburn, C. (2013). Vincere le abbuffate. Come superare il disturbo da beinge eating. Milano: Raffaello Cortina Editore.